“If you give me time, I will give you experience”

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La prima volta che ho sentito parlare del MAI (Marina Abramović Instiut) è stata leggendo una rivista patinata in cui si celebrava la partecipazione di Lady Gaga al nuovo progetto dell’artista. L’unico collegamento che al momento mi venne in mente tra le due donne furono le performance al limite del sadomasochismo dell’artista serba,  violazioni del corpo che Umberto Eco annovera negli esempi di “brutto”nella sua “Storia della bruttezza”. Non riuscivo a trovare altro aggancio che potesse avvicinarle, se non quelle pratiche shoccanti alle quali ammicca la cantante Lady Gaga per porre le proprie esibizioni il più possibile al centro della morbosa attenzione del pubblico odierno.

E invece mi sbagliavo.

Alla pagina internet del MAI, mi accoglie un video in cui il volto di Marina Abramović emerge dall’oscurità, dipinto d’oro.

Con la sua voce calda e profonda, il suo inglese dall’accento balcanico, racconta di come le sue origini risalgano alla cultura ortodossa e di come le icone,  presenti nelle chiese ortodosse, l’abbiano sempre colpita per la loro fissità.  Quelle immagini fuori dal tempo, con i loro volti imperscrutabili su sfondi d’oro, hanno fatto emergere il contrasto con l’idea del tempo contemporanea: un  elemento a cui si cerca di sfuggire deformandone in ogni modo  confini e   limiti.

Per questo motivo l’artista ha cercato di creare nel suo istituto un luogo fuori dal tempo, dove per contratto ci si impegni ad affrontare un viaggio interiore. Fa quasi tenerezza la necessità di un contratto per affrontare il silenzio e la solitudine con il proprio io. Penso tuttavia che sia segno dei tempi la necessità di un pur simbolico patto vincolante, per evitare di disattendere la più piccola promessa fatta a se stessi. In un mondo in cui non si fanno più progetti a lungo termine, anche un impegno di sei ore richiede un contratto scritto.

Abramović chiede tempo e  promette esperienza: “If you give me your time, I will give you experience”, dichiara nel filmato promozionale del MAI. Le ore trascorse nel MAI rappresentano infatti un’esperienza edificante che porterà in futuro vivere più intensamente la performance art, indubbiamente forma d’arte difficile da apprezzare senza una formazione dello spettatore.

L’istituto si trova ad Hudson, sul fiume omonimo. Nella visita virtuale ci accompagna l’artista all’interno di quella che sembra essere una fabbrica abbandonata: non uno di quegli ex opifici ristrutturati e pieni di oggetti di design, ma un vero e proprio edificio spoglio e disadorno. Si tratta di un teatro poi diventato cinema, poi campo da tennis comunale coperto e che ora ospita l’ unico luogo al mondo in cui vengono effettuate  e si musealizzano long durational performance.

Dopo aver firmato il contratto si abbandona ogni contatto con la realtà esterna e virtuale: non è possibile portare con sé telefoni o computer di sorta e si indossano delle cuffie, in modo da potersi calare il più possibile in questa esperienza eremitica. Essendo contemporaneamente oggetto di un esperimento e ricercatori, si indossa un camice da laboratorio.

Tra le varie attività che il metodo prevede, le prime sono la camminata lenta e silenziosa, seguita dalla permanenza nella stanza in cui si deve stabilire un contatto visivo con un altro sconosciuto. Credo che in questo l’artista si sia ispirata alla performance del 2010 “The Artist is Present”: nello spoglio salone del Moma Marina Abramovic sedeva a un capo del tavolo in attesa dello sguardo di chiunque avesse deciso di sedersi di fronte a lei, sostenendolo per alcuni minuti. Se all’inizio potrebbe sembrare un’attività banale, non va affatto sottovalutata la difficoltà che lo sguardo dello sconosciuto comporta: guardando l’altro da noi intravediamo le paure insite nel non noto e l’altra persona diventa specchio delle nostre debolezze. Inoltre non va dimenticato che in questa era di superficiali contatti on- line lo sguardo dell’altro si evita il più possibile, trincerandosi dietro a schermi di ogni tipo.

Il percorso continua nella stanza in cui ci si adagia su letti sospesi in aria, ricreando la sensazione della levitazione prodotta dall’assenza di gravità. Sono previste poi diverse ore di performance di ogni genere artistico: danza, musica, visual art, ecc.

Se un ospite si dovesse addormentare, le esigenze del corpo verrebbero rispettate al massimo, al contrario di quanto avviene nella quotidianità, per cui si permetterebbe all’addormentato di esaurire il sonno per poi riprendere il percorso.

Il prezzo è democratico, 75 dollari per l’intera permanenza, in modo da dare la possibilità di partecipare al maggior numero possibile di persone. E in questo intento ho finalmente compreso quale potrebbe essere stata la valutazione di Marina Abramovi nello scegliere un personaggio pop come testimonial del suo progetto. Attraverso il coinvolgimento della cantante e di riflesso dei suoi milioni di ammiratori, Abramovic manifesta il desiderio di aprire il più possibile al pubblico un mondo attualmente chiuso in se stesso e autoreferenziale come quello dell’arte. Se riuscisse in questa ambiziosa iniziativa potrebbe dare la spinta che serve al rinnovamento sia dell’arte sia delle menti dei suoi fruitori e indirettamente del mondo odierno.

a cura di Martina Lattanzi

Sitografia:

http://www.marinaabramovicinstitute.org/mai

http://en.wikipedia.org/wiki/Marina_Abramovic

http://en.wikipedia.org/wiki/Performance_art

Bibliografia:

Storia della Bruttezza, a cura di Umberto Eco, Bompiani, 2007

Filmografia:

The Artisti s Present, regia di Matthew Akers (2012)

Fotografia:

Marina Abramović, Portrait with Flowers, 2009 Photography by Marco Anelli. © 2010 Marina Abramović.

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