Era un’insolita, splendida giornata e il sole brillava tra le candide nuvole che scorrazzavano rapide per il cielo sopra la città. Bryan fissava l’arco che segnava l’uscita da St. Stephen’s Green; era uno splendido bambino di cinque anni circa, pieno di lentiggini e con i capelli rossicci. Stringendo tenacemente le mani dei suoi genitori, che erano ai suoi fianchi, camminava lento e curioso verso Grafton Street. La strada era lastricata con mattoncini rossi, probabilmente di terracotta, disposti ordinatamente su file parallele. Ai lati, decine di vetrine si susseguivano come un’immensa, unica finestra sulla città. Affacciandosi, però, si potevano scorgere soltanto hamburger, pietre preziose, abiti da sera o souvenir del posto: niente di così affascinante.
Quello che carpiva l’intera attenzione di Bryan (e soltanto parte di quella dei genitori) erano tutti quei strani personaggi che chiedevano soldi lungo la strada mettendosi in mostra nei modi più vari: c’erano due ragazzini di quattordici o quindici anni che suonavano la chitarra seduti su due amplificatori sgangherati, un ragazzo dalla pelle scura che con movimenti molto fluidi faceva roteare delle piccole sfere di vetro, un tipo davvero strampalato che suonava due cucchiai sulle nocche delle sue mani, mentre delle marionette ballavano a quel ritmo sotto di lui. Grafton Street era costellata di personaggi di questo tipo, che piazzavano i propri talenti in bella mostra tentando di racimolare qualche monetina, probabilmente da spendere in un panino poche ore più tardi. Bryan dedicava a queste persone tutti i suoi sguardi. Se da una parta ne era affascinato e intrigato, dall’altra però ne era come intimorito: queste persone erano tutte molto più alte di lui, lo guardavano dall’alto in basso e questo lo metteva in soggezione; per di più, nessuna di esse sembrava sorridere in modo spontaneo, sembravano tutti delle marionette che partecipavano al grande spettacolo di un Mangiafuoco nascosto da qualche parte, lì dietro.
Mentre continuava a passeggiare, e mentre i suoi genitori guardavano le vetrine, Bryan persisteva fisso con lo sguardo su tutte queste persone, perso in un fiume di persone a passeggio (era sabato pomeriggio). D’un tratto, la sua attenzione fu rapita da due buffi ragazzi, poco più che ventenni che, inginocchiati a terra, parlavano ad un piccolo gruppo di bambini raccolti intorno a loro. Bryan non riusciva a vedere bene dietro a quella schiera di suoi coetanei, ne’ riusciva a capire le parole di quei due ragazzotti: il fatto che però erano in ginocchio lo rese coraggioso e disposto ad avvicinarsi (“Mi piacciono le persone che si mettono alla mia altezza”, pensò). Strattonando le mani dei suoi genitori, si avvicinò e vide che quei due tipi strampalati indossavano dei costumi altrettanto bizzari, pieni di pezze colorate; avevano inoltre un naso rosso, un cappello anch’esso rosso, ed erano circondati di palloncini. Bryan allargò le sue labbra in un ampio sorriso: quei due clown sfornavano le geometrie e le forme più svariate modellando con le mani dei semplici pezzi di plastica – banali palloncini. Dinosauri, fiori, pistole, cappelli, spade.
I bambini intorno sembravano felicissimi, parlavano con i due clown e inscenavano con loro improvvisate battaglie a suon di spade, sentendosi come cavalieri al centro di un racconto epico. Bryan richiese un palloncino a forma di fiore, dal gambo verde e con i petali gialli. Uno dei due clown, di piccola statura e con una folta barba rossicia, volteggiò in aria i due palloncini, e con abili e rapidi gesti li gonfiò servendosi di una pompetta blu per poi, quasi magicamente, trasformarli nel fiore desiderato.
Bryan era il bambino più felice del mondo. Si avvicinò al pagliaccio e, istintivamente, lo abbracciò, dicendogli: “Thank you thank you thank you!”. Sua mamma gettò una moneta da un euro in un sacchetto grigio che raccoglieva i guadagni dei due, e trascinò via il piccoletto proseguendo lungo Grafton Street. Il bimbo strinse di nuovo la mano ai suoi genitori, e camminò con lo sguardo sognante. Dopo qualche decina di metri, si voltò e lanciò un’ultima occhiata a quei due clown, che mai più rivide, e mai seppe che fine avessero fatto.
Perché, a volte, bastano delle piccole cose per rendere felici i bambini, e forse cose ancor più piccole per rendere felici i grandi. Perchè, spesso, i grandi devono mettersi all’altezza dei bambini, se vogliono capirli. Perché, sempre, un abbraccio vale molto più di qualsiasi altra cosa.
Questo racconto è dedicato a Simone Menicocci: solo lui, oltre a me, sa cosa c’è di vero in queste righe. Che il suo spirito avventuriero lo custodisca sempre, in qualunque parte del Sudamerica si trovi ora, e che i palloncini che porta sempre con se possano rendere felici tutti i bambini del mondo.
a cura di Michele Martini