Con un sorriso abbozzato sulle labbra indosso lentamente la mia giacca rossa: manica destra, manica sinistra, spingo la zip verso l’alto. Infilo le mani in neri guanti di lana consumata, “In Patagonia” di Chatwin nello zaino, prendo il cellulare e faccio per uscire dalla stanza, dicendo a Francesco che rientrerò tra un’oretta al massimo. Anzi no, ci ripenso, mi giro e lascio il cellulare. Chiudo la porta senza far rumore e scendo quattro o cinque scalini di legno chiaro, un po’ logori. Pochi passi e sono su una strada di pietre e polvere che si snoda in salita fino alla sommità dell’isola. Sono a quattromila metri di quota e la mia carenza di forma fisica, unita alla stanchezza della giornata e alla scarsità di ossigeno, mi obbliga a fare ampi respiri mentre cammino a passo lento, gambe stanche e piedi sudati. Passo attraverso delle piccole abitazioni in cemento, dove si può mangiare una buona zuppa e un po’ di pollo per pochi spicci, qualche altra via devia dalla principale. Mentre salgo, una vecchia viene in direzione opposta trascinando un mulo carico di ortaggi e legna, il suo volto scuro è tornito dal sole e un’ampia gonna arcobaleno le scende lungo le gambe. Arrivo in cima, mi dirigo a sinistra oltrepassando un piccolo magazzino in costruzione. Attraverso lentamente una piccola boscaglia, dove fino a poche ora prima altre vecchie raccoglievano legna insieme a dei bambini, armati di accette, seghe e corde. Qualche minuto e sono sul punto più alto dell’Isla del Sol – lato sud, un pugno di terra emerso dalle profondità del Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo le cui acque fanno la spola tra Perù e Bolivia. Ci sono delle pietre disposte a semicerchio, segni neri di un fuoco recente, cespugli verdastri sparsi su tutta questa brulla polverosa calotta terrosa.
Sono solo.
In piedi, rifornisco avidamente i polmoni di ossigeno, chino leggermente indietro la nuca e roteo il bacino prima e tutto il corpo poi, lentamente, su me stesso. Ovunque, questo blu che mi colpisce come una mazzata, violento e strabordante, potente, mi intrappola, il blu di questo splendido cielo di agosto riflesso in acque gelide e trasparenti. Riesco a vedere, a nord-est, le Ande boliviane, cime che superano i seimila metri coperte di ghiacchio e neve, distese immense di roccia increspata sul mantello terrestre. Un condor vola a bassa quota, lo vedo nitido, nero e imponente nella sua apertura alare, stagliarsi contro questo orizzonte primitivo; spettro di cattivi presagi credo, per un attimo, ma poi rinnego quel pensiero e mi dico ma cosa mai può succedere quassù dove tutto è blu, e bello e puro e non arrivano i pensieri ipocriti degli uomini – quassù nel regno inattacabile del silenzio più dolce che abbia mai ascoltato.
Silenzio.
Silenzio ovunque, un pazzesco silenzio domina tutto ciò che il mio sguardo può abbracciare, uno spazio i cui limiti sono fuori dalla portata dei miei sensi, uno spazio in cui tutto respira e si muove senza far rumore.
Mi siedo a terra, masticando una manciata di foglie di coca che conservo in una tasca, mentre lesto come una volpe il sole scende ad ovest. Il rosso del tramonto è prepotente; il disco luminoso si immerge nel lago e lo fa suo in ogni sfumatura. Lo scalda, lo accudisce, prima lo violenta e poi lo culla, prima mi violenta e poi mi culla, sono stordito di fronte a quei pigmenti cosi vividi che mi proiettano in uno stato di coscienza nuovo, diverso. Sul lago si posa un manto di bianco, poi di blu scuro, non capisco più quali colori ci sono, non capisco più niente. Mi sento vivo, mi sento forte. Lancio un pensiero profondo e colmo d’amore alle persone a me care.
Fa buio in pochi minuti, e comincia a fare un freddo cane. Percorro la strada a ritroso mentre fa notte, un poco intimorito dall’oscurità. La stessa polvere, le stesse pietre, stavolta in discesa. Gli stessi scalini di legno logori. Rientrando in camera, sfilo i guanti, tolgo la mia giacca rossa: giù la zip, via la manica destra, via la manica sinistra. Francesco ha ancora la febbre alta e riposa ad occhi chiusi. Mi siedo ai piedi del letto, tolgo le scarpe e mi addormento con la testa appoggiata al muro, stanco. Mi risveglio per il torcicollo dopo un’oretta credo, mentre mi corico sbircio fuori. Le stelle e la luna danzano sulle acque del Titicaca, eleganti si scambiano sguardi d’amore, mi fanno sospirare e mi trafiggono, di nuovo, come ieri notte.
E’ bellissimo.
Che possano continuare a trafiggermi, che possano sempre trafiggerci tutti, che possano sempre trafiggervi tutti!
a cura di Michele Martini