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La historia es nuestra y la hacen los pueblos

L’11 settembre è un giorno che verrà ricordato per sempre, nella storia dell’umanità, per l’attacco al World Trade Center. Non molti sanno che nella memoria del popolo cileno è un giorno maledetto da quasi quarant’anni: l’11 settembre 1973, infatti, il golpe militare guidato da Augusto Pinochet mise la parola fine alla democrazia cilena. Eppure solo pochi anni prima si era respirata aria di cambiamento, facendo sognare un intero continente. Le elezioni del 1970, infatti, avevano portato al potere il socialista Salvador Allende e per la prima volta nell’emisfero occidentale un marxista diventava capo di un governo grazie a elezioni democratiche, senza un’insurrezione armata.

Nel suo discorso di insediamento alla presidenza della repubblica, dinanzi al congresso, Allende disse: “vogliamo sostituire il regime capitalista. Sappiamo che ciò non è stato possibile fino ad ora democraticamente. Ma adesso ci proveremo”[1]. Il suo programma prevedeva grandi interventi statali e la ridistribuzione della ricchezza, fino a quel momento concentrata nelle mani di alcune famiglie cilene ricche e potenti per attenuare, in tal modo, gli squilibri tra ricchi e poveri. Subito dopo la sua vittoria, però, si manifestarono le prime reazioni interne e internazionali, di natura economica e politica. A Santiago i ceti abbienti iniziarono a ritirare i depositi bancari e a Washington il presidente Nixon[2] incaricò il direttore della CIA Helms[3] di agire, perché si evitasse a ogni costo l’assunzione dei poteri da parte del nuovo governo. Allende si difese come poté. Cercò di tranquillizzare le piccole e medie imprese e aumentò gli stipendi dei militari; non riuscì però a far trovare un’intesa tra Unidad Popular e la Democrazia Cristiana che avrebbe rafforzato il governo. Un anno dopo l’elezione, Nixon attaccò Allende sul suo fianco più debole: l’economia. Banche private americane e organismi internazionali bloccarono i finanziamenti al Cile e gli Stati Uniti misero in atto  anche un boicottaggio commerciale. Questi attacchi furono la risposta alla politica di nazionalizzazione delle miniere che portò nelle casse dello stato cileno le entrate di cui godevano le compagnie degli Stati Uniti. Allende giustificò così la nazionalizzazione: “non è possibile parlare propriamente di libertà e dignità nelle relazioni fra i popoli, quando i loro mezzi di produzione fondamentali, le risorse vitali per la loro sopravvivenza, sono stati carpiti o assoggettati da un piccolo gruppo di grandi imprese che perseguono il proprio lucro a spese del sottosviluppo e dell’arretratezza delle masse dei Paesi in cui sono stabilite. Con un atto di piena sovranità nazionale, il Cile ha deciso di recuperare per sé la proprietà delle fonti di produzione più decisive per il suo presente e il suo futuro, da cui dipende la sorte della battaglia che esso sostiene per sottrarre la grande maggioranza del suo popolo alla miseria materiale, allo sfruttamento umano interno e alla subordinazione allo straniero”[4].

Per un paradosso della storia, anche la dittatura militare beneficiò di questa nazionalizzazione, perché lo sfruttamento del rame divenne la colonna portante dell’economia cilena.

Verso la fine del 1972, Allende “aprì” alle forze armate, sperando che un ingresso dei militari nel governo potesse restituire la normalità all’ordine pubblico e tranquillizzare i settori più inquieti della società cilena. Il generale Carlos Prats, comandante in capo dell’esercito, assunse così la carica di ministro dell’interno. La politica di Allende intanto si sbilanciava sempre più a sinistra, stringendo progressivamente le relazioni con Cuba. Scrisse Prats: “All’interno delle forze armate appare ogni giorno più evidente un processo di polarizzazione. Per la prima volta, da quando Unidad Popular è al potere, esponenti dei corpi militari espongono con franchezza, e talvolta con durezza, il loro disaccordo con la politica del governo”[5]. Dal dissenso si passò, nel 1973, alle prime rivolte militari, che però non ebbero alcun esito perché sedate dalle truppe fedeli a Prats. L’estate del 1973 fu caratterizzata da una serie di scioperi antigovernativi da parte di camionisti, proprietari di autobus e taxi ecc. L’inchiesta della commissione del senato degli Stati Uniti sulle attività della CIA in Cile (conosciuta come rapporto Church, dal nome del senatore che la presiedeva) accertò che “gli scioperi antigovernativi erano appoggiati in forma attiva dai vari gruppi del settore privato che ricevevano finanziamenti dalla CIA”[6]. A fine agosto Carlos Prats, contestato per la sua fedeltà ad Allende, si dimise dalle cariche di comandante in capo dell’esercito e ministro dell’interno: il generale sperava che il suo ritiro servisse a fermare la marcia dei golpisti. Propose che a succedergli fosse Augusto Pinochet Ugarte, il numero due dell’esercito, di cui Prats garantiva una totale fedeltà alle istituzioni. Intanto in parlamento, Democrazia Cristiana e destra respingevano per illegittimità tutti i provvedimenti presentati dal governo e il 28 agosto Salvador Allende formò il suo decimo governo; nominò cinque militari alla carica di ministro che rappresentavano esercito, marina e aeronautica. Il 9 settembre 1973, il presidente informò i dirigenti di Unidad Popular che stava per proporre un referendum. Max Marambio il responsabile della guardia personale di Allende, racconta: “mi risulta che [Allende] avesse pensato di diffondere la notizia [del plebiscito] giorni prima, ma Pinochet in persona gli aveva chiesto di rimandare l’annunci, e Allende credeva nella lealtà del generale”[7]. Scoprì quanto si sbagliava l’11 settembre, giorno del golpe militare che cambiò per sempre la storia del Cile.

Il colpo di stato fu organizzato e guidato da quattro generali: il generale dell’esercito Augusto Pinochet, il comandante dell’aeronautica Gustavo Leigh, l’ammiraglio della marina Jose Toribio Merino e il capo dei carabinieri Cesar Mendoza; Allende rifiutò la proposta di salvacondotto offertagli dai militari e si rifugiò con i suoi fedelissimi alla Moneda[8]. I golpisti prima presidiarono le strade di Santiago con i carri armati e circondarono il palazzo presidenziale, poi passarono all’attacco vero e proprio bombardando la Moneda. Il presidente si trasformò lui stesso in un soldato, imbracciò un fucile AK-47 regalatogli  dall’amico Fidel Castro e si accinse a resistere all’attacco combinato delle forze armate che cominciava a dispiegarsi[9]. Dall’interno del palazzo, Allende fece una serie di discorsi alla nazione, trasmessi da Radio Magallanes[10]; i golpisti però conquistarono il palazzo e il presidente cileno, anziché arrendersi, optò per il suicidio sparandosi con il suo fucile. Ecco un estratto del suo ultimo discorso alla radio: “lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento”.

a cura di Francesco Lattanzi

*Testo tratto dalla tesi di laurea “La dittatura cilena nelle pagine di Luis Sepúlveda” di Francesco Lattanzi
*Immagine liberamente tratta da http://www.wikipedia.it

Italian Spring Lab vi propone la canzone “Salvador” dei Nomadi, e il documentario (bellissimo) “Salvador Allende” di Patricio Guzman.

[1] Commemorazione del Presidente della Repubblica Cilena Salvador Allende, in Atti parlamentari, VI legislatura, Camera dei Deputati, vol. 10. Discussioni, seduta del 26 settembre 1973, pp. 9145-9147.

[2] Richard Nixon (1913-1994), 37° presidente degli Stati Uniti d’America, in carica dal 1969 al 1974,

[3] Richard Helms (1913-2002) fu direttore della CIA dal 1966 al 1973.

[4] Estratto del decreto con cui Allende ribassò gli indennizzi per la nazionalizzazione del rame, http://www.salvador-allende.cl/Unidad_Popular/Decreto%20sobre%20indemnizacion.pdf.

[5] I. MORETTI, In Sudamerica, 2000, Milano, Sperling & Kupfer Editori pp. 25-26.

[6] Ivi p. 27.

[7] M. MARAMBIO, Le armi di ieri, 2010, Milano, Mondadori Editore, p.107.

[8] Palazzo presidenziale, deve il suo nome al fatto che fu costruito per ospitare la Zecca dello Stato.

[9] M. MARAMBIO, Le armi di ieri, cit. p. 138.

[10] Radio del partito comunista cileno.

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